Il paese dei Guarani soffriva una grande siccità; i suoi frutti
si seccavano ed i pesci erano morti; i cacciatori rientravano a
mani vuote; i pantani scomparivano con gli uccelli. Era la prima
volta che soffrivano la fame. Pregavano Tupà perché mandasse la
pioggia, ma l’unico risultato era che la terra continuava a
seccarsi. Due giovani guerrieri, Avatì e Negrave, si
dispiacevano del pianto dei bambini ed erano disposti a dare la
loro vita per salvarli. Appena pronunciarono i loro desideri,
apparve uno sconosciuto che assicurò loro che se parlavano sul
serio, Tupà li avrebbe aiutati. Egli lo aveva mandato sulla
terra a cercare un uomo che avesse voluto dare la sua vita per
gli altri facendo in modo che dal suo corpo sorgesse la pianta
che avrebbe dato da mangiare a tutti. Annunciò loro che la
pianta sarebbe stata coltivata nei pressi dei loro paesi e che i
suoi frutti si sarebbero conservati per lungo tempo; che con la
pianta divina i Guaranì non avrebbero mai più sofferto la fame.
Entrambi confermarono il proprio desiderio di obbedienza al
volere supremo di Tupà. Non era necessario che entrambi si
sacrificassero. Uno dei due doveva rimanere in vita per cercare
un luogo sulle rive del fiume, vicino al paese e preparare il
terreno per interrarvi l’amico. Dal corpo di questo sarebbe nata
la pianta di Tupà che gli avrebbe dato la vita eterna per il suo
sacrificio fatto per gli altri. I due amici cercarono il posto e
si strinsero la mano. Fu scelto Avatì e Negrave preparò il
terreno; piangendo lo interrò. Tutti i giorni andava a trovarlo,
irrigava il terreno con la poca acqua del fiume. Ed allora le
parole di Tupà si compirono: dalla terra emerse una pianta
sconosciuta che crebbe, fiorì e diede i suoi primi frutti in
abbondanza. Nè portò la sua gente a conoscere la pianta e spiegò
ciò che era accaduto. Apparve di nuovo lo sconosciuto per
confermare la storia dicendo che Avatì sarebbe vissuto per
sempre se loro avessero seminato i semi e avuto cura della
coltura e per promettere loro che Tupà avrebbe mandato la
pioggia perché mai più la fame potesse affliggere il popolo dei
Guaranì. La gente si inginocchiò davanti al messaggero ed
esplose in canti di lode al suo creatore. E da allora il mais
cresce e nutre tutti con i suoi frutti deliziosi.
Il grano Siciliano o granturco da “ Lo spettacolo della natura “
dialogo IV – 1759
Il Mais, detto altrimenti gran turco, è un tipo di frumento ben grosso e
quasi rotondo, ma in qualche parte appuntito, la cui grandezza si
accosta a quella del cecio, o del pisello. Se ne trova di giallo, di
bianco, di rosso e del brizzolato. Il colore della sua scorza è molto
vario. Macinando questo grano, se ne ricava della farina assai bianca, o
almeno giallognola, il cui sapore, a chi ci ha fatto la bocca, non è
spiacevole. Di questa farina si possono fare delle minestre manipolate a
guisa di piselletti, del pane, dei biscotti, e molto più ancora delle
polente, come si pratica giornalmente nelle parti d’America e d’Asia.
Questo sostanziosissimo grano ha virtù di ingrassare, e vale come biada
e come granella date in cibo agli animali. Da un seme di granturco
germinano, quando quattro, quando cinque e quando sei steli somiglianti
alle canne, e alte sei, sette piedi, il cui midollo contiene un certo
succo, che, a spremerlo, se ne estrae un vero zucchero. Spuntano da ogni
canna due o tre pannocchie, a guisa di grosse spighe, la cui lunghezza
arriva a quattro o cinque grosse dita, e son rivestite da numerose e
grandi brattee, di una consistenza di poco meno forte della cartapecora,
le quali difendono la detta pannocchia dalla pioggia, dall’umido, e
dalle persecuzioni degli uccelli. Ogni pannocchia contiene in se otto
costoline o file di granelli, ciascuno dei quali ne porta trenta:
sicché, a sommarli tutti otto, arrivano a duecentoquaranta; e di
conseguenza ogni canna ne porta più di settecento. Quindi, volendo fare
il conto del prodotto di un solo seme, si arriverà a più di duemila
granelli. Questa prodigiosa fecondità, accom-pagnata dalle benefiche
qualità di questo grano, ha incitato gli agricoltori di molte e molte
delle nostre province meridionali a seminarne. Si sono dun-que messi
alla prova, e hanno fornito un buon esito, specialmente per il pollame.
Ma la raccolta del granturco, non è solamente più copiosa di tutte le
altre, ma ancor più sicura. Questa sorta di biada non è soggetta a
quelle tante malattie che distruggono gli altri grani. Vi son dei posti
dove si fanno tutto il giorno delle prove: e non vi si perde mai nulla.
Ma noi non abbiamo questa regola. Condanniamo tutto ciò che da noi non
si pratica, e quasi sempre ci immaginiamo che tutto ciò che da noi si fa
debba essere la regola di quel che deve essere fatto.
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