Amarcord «Lavoravo in un mulino. Finito il turno
andavo nei campi. E il giorno dopo mi alzavo alle 4»Buttinoni:
la coop li recuperò da me
Quest'anno non rispetterà la tradizione. Serafino Buttinoni ha
91 anni e da almeno 80 coltiva il melone di Calvenzano. Sa bene
che va piantato nella Settimana Santa. In tanto tempo questa è
forse la terza volta che gli capita. Uno smacco. Del frutto
simbolo del paese, Serafino è l'esegeta e il salvatore. È lui
che anno dopo anno, quando tutti ne avevano abbandonato la
coltivazione, ha continuato a piantarlo preservando la semente.
Quando la Cooperativa agricola, 12 anni fa, ha deciso di
recuperane la coltivazione, è a lui che si è rivolta chiedendo
qualche seme. «Quest'anno è troppo umido e freddo ? spiega ?
tocca aspettare. Io pianto in terra i semi, non ho le serre».
Serafino ha compiuto gli anni giovedì, vive in un appartamento
alla periferia del paese con la moglie Giuseppina Blini, e tutta
la sua vita può essere raccontata in qualche modo attraverso il
melone. Per lui è il sapore dell'infanzia, la memoria di un duro
lavoro nei suoi anni migliori, una cocciutaggine e una fede
quando nessuno ne voleva più sapere e ora è un hobby e tanti
ricordi. Adesso lavorare la terra significa curare l'orto, solo
un passatempo, ma Serafino ricorda bene quanto sia dura la vita
legata ai campi.«Mio padre ? racconta ? aveva 30 pertiche. Poca
roba. Non erano sufficienti a dar da mangiare a quattro figli.
Eravamo poveri. La maggior parte delle famiglie di Calvenzano
erano nella nostra situazione. Tutti tenevano un pò di terra a
meloni, non perché fossero buoni ma perché rendevano. Maturavano
in fretta, a fine giugno erano già pronti. Meloni e piselli,
erano i primi raccolti, permettevano di pagare il primo semestre
di affitto che si versava il giorno di San Pietro». I meloni di
Calvenzano erano pregiati, meno dolci di quelli mantovani ma più
grandi, con una polpa consistente e profumata. Erano molto
apprezzati e prendevano la via dei mercati generali di Bergamo e
soprattutto Milano e da lì anche all'estero. A fine degli anni
'40, tornato dalla campagna di Russia, dove aveva combattuto
come alpino, Serafino si era messo a lavorare in un mulino del
paese. «Finito il turno ? spiega ? venivo a casa e andavo nei
campi insieme a mio cognato. I miei meloni erano i più belli del
paese. Per raccoglierli bisognava alzarsi alle 4. Io passavo nel
campo, vedevo quelli che erano maturi e li tagliavo. Poi si
mettevano in una cesta e si riempiva il carretto. Ne
raccoglievamo fino a cinque quintali al giorno». A quel punto i
meloni partivano per essere venduti. «Il mercato era nella
piazza del ciocco, chiamata così perché i contadini si sedevano
su un albero abbattuto vicino alla pesa pubblica. I mediatori
facevano il prezzo. Io avevo un accordo con un commerciante di
Treviglio che li rivendeva a Milano. I miei erano i frutti più
pregiati e pur di averli mi dava più soldi». Serafino, come ha
fatto per una vita, seleziona ancora i meloni più belli e poi ne
conserva la semente. La tiene in cantina, insieme a tanti semi
diversi. Qui ha una sorta di laboratorio dove fa i suoi
esperimenti: «Le varietà che non conosco, prima le semino in
vaso- spiega - per vedere come gettano e quanto tempo ci
impiego. Se il risultato mi convince, poi le metto nell'orto».
In una scatola di plastica ha i semi del melone di Calvenzano:
«Si può dire siano quelli di mio padre - spiega con l'occhio
lucido . Ormai di meloni ne coltivo pochi, solo quelli che
mangiamo in famiglia. Sono buonissimi, non c'è niente di più
buono al mondo».
Da: Corriere della Sera (30 marzo 2013) Pagina 8
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